topografie capitoline vol.2: Parioli e San Lorenzo

Ti trasferisci a Roma, e arriva un momento in cui qualcuno ti chiede il codice di avviamento postale. Magari vieni da un paesino della Basilicata di 800 abitanti e non immagini che una metropoli possa averne anche decine. Contestualmente a questa scoperta – che nel frattempo ti ha sensibilmente cambiato la vita – di solito ne fai un’altra: la tua municipalità.

Nonostante la forma vagamente rotondeggiante della città, però, non funziona ad anelli come nelle vere capitali del mondo, ma a borgate, se manco fossimo rimasti ai comuni feudali. Poi credi che per lo meno tale suddivisione possa avere un senso, ma quando ti dicono che San Lorenzo da qualche settimana è nello stesso municipio dei Parioli, ti accorgi che questa città… un senso non ce l’ha – d’altronde se non ce l’ha la vita, perché dovrebbe avercelo Roma… no, Vasco?

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In ogni caso l’11 marzo scorso è stato deciso che Parioli/Flaminio e San Lorenzo, dalle prossime elezioni comunali di maggio, saranno entrambi municipio II. E fin qui, parliamo di cose note… Meno noto a chi non vive a Roma sarà la stranezza della faccenda, perché i due quartieri sono ciò che di più opposto si possa immaginare. Sono anche tra i più noti e stigmatizzati della città, spesso con luoghi comuni solo in parte agganciati alla realtà, ma comunque divertenti.

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Perché se per la strade di san lollo è prevedibile imbattersi in tipi umani con più piercing che capelli – che magari sono verdi -, i pariolini sanno fare il nodo alla cravatta da quando hanno 13 anni, e nei loro armadi c’è un paio di hogan per ogni giorno della settimana. Se a san lollo c’è la Sapienza (o almeno parte di essa) ai Parioli c’è la Luiss. Se le strade di San Lorenzo si chiamano con nomi di popoli barbari, quelle sui monti Parioli si chiamano come marescialli e generali.

Ma volendo andare oltre la superficie, permettetemi una riflessione ardita. Da come la vedo io, i due quartieri sono opposti in base all’approccio che suggeriscono verso la gestione degli spazi. Provo a spiegarmi meglio: a San Lorenzo gli spazi sono vuoti, da riempire, da reinventare ogni giorno, o anche ogni ora. Così “la piazzetta” si rifà il trucco almeno 4 volte al giorno in base a chi la popola: la mattina i vecchietti a prendere il caffè, il pomeriggio la qualunque, la sera tamburelli e musici, la notte tossicomani e più o meno affidabili venditori di fumo.

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Questo è il quartiere dove i teatri diventano cinema autogestiti, i vecchi cinema diventano centri sociali, il pastificio è un palazzo di uffici poco radical e molto chic, in quelle che furono vetrerie ora si tengono lezioni universitarie e i retrobottega di sera sono piccoli teatri.

Insomma, a san lollo quasi niente è ciò che era. De Gregori ci ricorda che il diciannove luglio a San Lorenzo cadevano le bombe come neve. Questo dedalo di stradine è rinato in fretta, e continuerà a farlo.

Ai Parioli invece non si distrugge nulla, e quindi poco si crea: è tutto deciso a monte, e sul monte. Gli spazi hanno esattamente la funzione sociale e topografica che aveva in mente l’urbanista/architetto/ingegnere. Nulla di male in tutto ciò: il tutto è più prevedibile, quindi più efficiente e, in una parola… ricco. Non c’è bisogno di visite papali, qui.

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Perché alla fine tutto si tiene: toponomastica e abitanti, spazi e pratiche, habitat e habitus. Meno male che l’essere umano è nato in movimento e dotato di libero arbitrio, in modo da potersi scegliere la boccia in cui non ci si sente un pesce fuor d’acqua.

si porta a roma… lo sciopero dei mezzi

Per ogni fuorisede fuoriposto che si rispetti, lo sciopero dei mezzi pubblici è una farsa. Si tratta di quelle cose che tutti pensano ma mai nessuno dice: alla fine non sciopera nessuno. D’altronde, il fuorisede per definizione non è motorizzato, quindi se si dovesse chiudere in casa ogni volta che qualche sigla sindacale – legittimamente, sia ben chiaro – indice uno sciopero del personale del trasporto pubblico, farebbe la vita di clausura della monaca di Monza… che pure potrebbe avere il suo perché, pensandoci un attimo.

Diciamo che nel 90% dei casi, lo sciopero dei mezzi si traduce in un motivo pseudo-valido per far saltare le lezioni dell’università. Basta che al prof di turno vengano evocate scene apocalittiche di poveri studentelli appiedati che, dopo una sveglia all’alba (ma dove? ma chi? ma quando?!), sono costretti a tornarsene a casa perché i bus non passano. Ed è un attimo che si rimanda tutto alla settimana seguente. Considerando che gli scioperi sono sempre di venerdì, allungare il week end a buffo è una tentazione forte un po’ per tutti.

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Il tutto si traduce in una giornata libera, dato che i mezzi poi passano. E’ noto che l’atac bleffa più di un navigato giocatore di poker e quindi quel furbacchione del fuorisede fuoriposto, in occasione degli scioperi, cosa fa? Recupera sonno? Inizia a studiare per la sessione d’esame estiva? Niente di tutto ciò, anzi, è solito organizzare una scampagnata al parco o addirittura fuoriporta. Fin quando non si abbatte sul suo destino il 22 marzo 2013.

Ebbene si, oggi il sole ha dato inizio alla primavera, ma questa volta la scampagnata se la sono andata a fare gli autisti. Giustamente, il mese scorso andarono in massa a fare gli scrutatori per le elezioni – bloccando la città – e quale occasione migliore per spendersi quel paio di sudate piotte se non spassarsela il primo week end di primavera?

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Risultato: metro chiusa, bus manco a pagarli oro, e un traffico di smart e motorini che se anche fosse passato qualche bus, si sarebbe fatto prima a piedi. Il tutto condito da – tanto esauriti quanto controproducenti – ausiliari del traffico pagati per prendersi le peggiori bestemmie da tutti i passati. Il tenero fuorisede, quindi, dopo aver mobilitato mezzo corso di laurea per andare alla fantomatica ostia beach, non ha intenzione di  accontentarsi di una villa Torlonia qualunque. Verificata l’entità dello sciopero, scatta la caccia all’amico/collega/conoscente motorizzato. Auto, scooter, smart, triciclo, tandem. Tutto va bene pur di non sprecare questa giornata di cielo super terso.

D’altronde dopo una sessione invernale passata su sudatissime carte, seguito a ruota da un mese di pioggia che manco a Calcutta nella stagione delle piogge, spunta il sole e io francamente mi chiedo… che stai a fa ancora davanti al pc a leggere sto blog?

si porta a roma… aspettare il Papa

Checché se ne dica, Roma è piena di divertimenti gratuiti. Su tutti, ce n’è uno che capita ogni morte/dimissione di Papa: l’elezione del nuovo Papa. Non che sia piacevole stare un paio d’ore a piazza San Pietro, sotto la pioggia e con tassi d’umidità incalcolabili da nessuna stazione di rilevazione meteo. Però vi confesso che ha il suo perché essere lì, dentro la storia (si, quella che poi i ragazzetti studiano sui libri alle superiori) in mezzo a migliaia di persone.

Ecco, primo punto da chiarire. Le telecamere generano strani effetti visivi: piazza san Pietro non era pienissima. Certo c’era un sacco di gente, ma dato che il totonumeri si fa ad ogni evento di piazza, va detto che i fedeli erano abbastanza radi. Cioè anche gli ultimi arrivati potevano, senza nemmeno spintonare, arrivare a una distanza decente dal balconcino. Insomma, al concertone del primo maggio piazza San Giovanni è molto più inaccessibile. Sarà stato per il tempaccio piovoso, ma che ci crediate o no, i fatti stanno così.

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Forse per lo stesso motivo, la piazza era molto molto giovane. Al di là di ogni mia aspettativa, c’erano un sacco di ragazzi, e anche gruppetti di bimbeminchia urlanti in pieno one direction style. Quello che non ti aspetti. Tanti ispanici invece te li aspetti. Sudamericani a palate, e si sapeva. Ma imbattersi negli spagnoli con la bandiera iberica in pieno mood da stadio davvero ti lascia un po’ basito. Era davvero difficile liberarsi del coro “esta es la juventud del Papa”.

Ma nonostante gli urlatori, il vero vincitore è stato il gabbiano in mondovisione. Altro che papa Francesco, il gabbiano ha davvero vinto. Fino a pochi minuti prima della fumata, un gabbiano bianco (sono quasi sicuro, non era una colomba né aveva il rametto d’ulivo) è stato appollaiato in cima al comignolo più importante del mondo, inquadrato di profilo, in camera fissa, e proiettato sui teleschermi per almeno mezz’ora. Per fortuna lui non doveva recitare preghiere in italiano… chissà se avesse saputo le parole, magari le avrebbe suggerite a Jorge Mario Bergoglio…

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E poi ti guardi intorno e capisci che l’attesa del pontefice è rivelatrice anche dell’ italian style. Fino a 5 minuti prima della fumata, in piazza era complicato acchiappare un connazionale: la maggior parte era nelle strade intorno, chiusi in auto parcheggiate in quinta fila. Sotto la pioggia tutti i turisti, i tedeschi duri e puri insieme ai latinos sempre sorridenti, pure con quel freddo. Gli italiani sempre super comodi e dal parcheggio criminale facile, anche al cospetto dello spirito santo.

Chi è venuto in metro almeno è stato omaggiato dal “premio fedeltà atac“. No, non mi riferisco a qualche tessera coi bollini del latte. Piuttosto i fedeli temerari che si sono buttati nel macello della metro sono stati premiati per l’alto tasso di fedeltà al contempo verso l’atac e verso la chiesa. Nessun biglietto al ritorno: tornelli tutti disattivati alla fermata Ottaviano, decine di omini atac per la sicurezza ma nessuno a controllarci i biglietti. Non metterei la mano sul fuoco rispetto all’aver aperto le acque, ma di sicuro qualcuno lassù apre i tornelli della metro di Roma.

si porta a roma… il mercato super etnico

La capitale è piena di mercati e mercatini: temporanei, permanenti, all’aperto o al chiuso. Dell’usato, alimentari, chic e poracci: ce ne sono per tutti i gusti. Ma il più figo di tutti è il mercato etnico di piazza Vittorio. Si tratta di un mercato permanente, al chiuso, su via Principe Amedeo.

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Passeggiare tra i – più o meno sporchi – banchi del nuovo mercato Esquilino vuol dire immergersi in un mix incredibile di culture. Qui troverete frutti, spezie, ortaggi che “noi comuni italiani” non possiamo nemmeno immaginare.

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La banana si chiama platano, il riso ha mille forme e colori, coi grani di pepe ci potresti dipingere un quadro di Keith Haring per quanti colori ha… mentre i fagioli ti fanno l’occhiolino (non scherzo, si chiamano “fagioli occhio”, a un euro e ottanta al chilo).

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Mi perdonerà Castells per l’indebito utilizzo di concetti, ma qui le identità sono più reattive che mai, e le comunità non sono affatto immaginate, ma vive e reali come un tocco di Yuca sbattuto in testa. Basta fare qualche passo per saltare da un continente all’altro. Scambi un paio di battute con la signorona peruviana dell’alimentari, e subito affianco ti immergi nella cucina asiatica: noodles, salsa di soia, gnocchi cinesi… tutto quello che vuoi – sempre a patto che riesci a capire cosa stai comprando, date le etichette rigorosamente in lingua madre.
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Poi ci sono tantissimi arabi, i più curiosi sono quelli che vendono solo carne “musulmana”, in pieno accordo con il business del “religion correct”: niente maiale e solo trattata come Maometto comanda. Ogni venditore prova ad attirare la tua attenzione con un accento diverso, spesso in perfetto romanaccio, ma con modi della propria cultura: con garbo e discrezione gli orientali, con irresistibili grida sguaiate gli arabi, con una pacca sulla spalla gli africani.
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Negli ultimi anni l’intero quartiere dell’Esquilino è diventato multiculturale, e il mercato etnico è cambiato diventando il mix esplosivo che è ora. Ma affianco alle spezie persiane, tra il macellaio libanese e il fruttivendolo ecuadoreño, continuano la tradizione di famiglia i banchi gestiti da italiani, magari col santino o il calendario di Para Wojtila in bella mostra.

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E allora in questo caos etnico puoi fare la spesa più figa del mondo: mezzo chilo di riso thai profumato, due chili di Chayote dal Costarica e tre etti di porchetta direttamente da Ariccia. Perché l’esotico è vicino e lontano: più super (etnico) di così!

si porta a roma… l’ascensore democratico

Non ho aggettivi migliori: gli ascensori di Roma sono osceni. Almeno se ci si limita a considerare le dimore in cui un vero fuorisede fuoriposto può vivere. Nella maggior parte dei casi si tratta di gabbiotti inquietanti che farebbero soffrire di claustrofobia anche chi non sa manco che vuol dire “claustrofobia”.

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Diciamo che ci sono diverse varianti, anche se la sostanza cambia poco. Chiuso incassato nel muro o aperto con le grate, con o senza specchio, a volte trovi pure quelli con la cassetta per la 100 lire… ma quelli che amo incondizionatamente hanno il seggiolone. Ebbene si, in alcune case “antiche” – o meglio, vecchie – ci sono ancora gli ascensori con il sedile ribaltabile all’interno. E’ un po’ un’ammissione di debolezza, in cui l’ascensore sembra dirti: dato che sono lentissimo e ci metterò 3-4 minuti buoni a farti arrivare al settimo piano, almeno ti faccio sedere.

E allora gli perdoni pure che appena fai un passo trema tutto in terremoto-mode, o che si blocca un giorno si e l’altro pure – con tanto di vecchietta urlante intrappolata all’interno -, o ancora che è talmente stretto che bisogna entrarci in fila, chiedendo agli altri inquilini a che piano vanno, perché sennò va a finire che bisogna trasformarsi nell’uomo ragno e saltare in testa alla gente.

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Poi nei palazzi studenteschi di San Lorenzo ci sono gli ascensori pieni di scritte, stupendi graffiti del terzo millennio. Mentre nei condomini borghesotti di piazza Bologna il trash raggiunge livelli impensabili grazie ai rivestimenti interni in una radica più finta delle tette di Valeria Marini. Ma noi i nostri ascensori li amiamo anche e soprattutto così: noir, un po’ cupi, decadenti… sperando sempre non siano anche “cadenti” -__-

Mai li cambieremmo con i loro colleghi delle palazzine di periferia: nuovissimi, lucidi e metallici, magari infallibili, ma tanto tristi. A noi piace proprio aspettare dieci minuti che si liberi e poi prenotarlo premendo il bottone convulsamente per far prima dell’inquilino antipatico del piano di sotto (no, non è contemplata un’intelligenza artificiale tale da farlo fermare da entrambi), e ci piace anche chiedere all’arzilla vecchietta del piano di sopra se si ferma al nostro pianerottolo per raccogliere anche noi nella discesa.

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Insomma, la mancanza di tecnologia crea socialità. E poi l’ascensore a Roma è squisitamente democratico, egualitario. Gli stessi ferrivecchi li trovi sia nei quartieri prettamente studenteschi sia nelle stupende case ristrutturate del centro, a cui magari hanno fatto un super restyling all’interno degli appartamenti… ma lui, l’ascensore, rimane quello del dopoguerra, a testimoniare che anche a piazza di Spagna il tempo passa. E così il politico di turno, che magari si è fatto scarrozzare in auto blu e non ha mai preso la metro nella vita, ogni tanto si ritrova a salire a piedi perché l’ascensore è in sciopero.