si porta a roma… la schizofrenia domenicale

Ultimamente le domeniche capitoline sono strane, a tratti schizofreniche. Oggi si è raggiunto l’apice. Da una parte la sparatoria di piazza Colonna che tutti abbiamo visto/sentito. A grandi linee ce l’hanno raccontata così: i politici sorridenti chiusi nel palazzo e la disperazione dell’uomo comune fuori dal palazzo. Forse sarà così, ma è stato anche un gran panico per tutti quelli che si sono trovati lì. Dall’altra parte  il mega pic nic di radio Deejay: migliaia di ragazzi a villa Ada, nell’ennesima giornata di sole da passare nei parchi capitolini.

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Due mondi così distanti, sembrerebbe. La politica e la violenza da un lato, l’ennesima giornata di relax dall’altro. Eppure il giorno prima il fuorisede fuoriposto si era chiesto cosa fare la domenica. Scartata l’idea di iniziare a studiare per la sessione estiva – tutto tassativamente rimandato a “dopo il primo maggio” – il giovine era tentato sia dal parco sia dallo stare al centro dei sommi fatti politici. Forse allora i due mondi non sono così distanti.

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Schizofrenia domenicale, dicevo. l’inquietante impressione è che appena si ha un po’ di tempo libero, le persone danno il meglio e il peggio di se stesse, e la città prende vita, nel bene e nel male. Si, perché anche domenica scorsa la capitale ha dato prova della suo essere borderline. Il 21 aprile, al Circo Massimo centinaia di figuranti (vedi foto) celebravano il Natale di Roma, in una messa in scena tanto epica per gli emozionatissimi Romani, quanto irresistibilmente trash per chi assisteva da fuoriposto. Mentre aveva luogo questo tripudio di maestosità imperiale, i grillini davano prova dell’inefficienza organizzativa dei giorni nostri.

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Anche qui due strani opposti: da una parte la spensieratezza del passato, dall’altra urla incazzate e impegnate, dopo poche ore al voto a Napolitano. Ma soprattutto

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urla caotiche: è stato il giorno della “marcia su Roma” – o meglio, sui Fori Imperiali -, nata dal nulla, non prevista, non capita… neanche da chi l’ha fatta. E terminata al Colosseo – dopo aver rimediato un (mega?)fono dei cinesi -, ad appena una fermata di metro dai centurioni in combattimento, anche loro: chi combatte con le armi ma per finta, chi con le parole ma per davvero. O almeno così crede.

Roma è una metropoli, e spesso bisognerebbe essere nello stesso momento in più parti – teletrasportandosi a mó di Pokemon – per viverla in ogni aspetto, e per vivere ogni aspetto di se stessi. E così la città contiene (quasi) tutto, schizofrenica e incoerente… un po’ come tutti noi, no?

si porta a roma… l’acqua del rubinetto

I Romani de Roma bevono l’acqua del rubinetto. Nel Paese in cui si consuma più acqua in bottiglia al mondo, nella capitale tutti sono convinti di avere l’acqua migliore del pianeta. Il che in parte è vero: l’acqua del rubinetto qui è buona. Poi c’è da dire che nella città senza mare l’acqua è ovunque. Due fiumi, tante fontane, terme qui e lì e poi gli storici “nasoni”, cioè irresistibili fontanelle d’acqua potabile sparse un po’ dappertutto (in foto). Qui perfino i cani hanno la loro fontana, quella minuscola di via Veneto. C’è da dire che grazie al secchio apposito anche molti nasoni diventano dog friendly. Ma non è questa la sede per una ricognizione delle fontane romane, che trovate dettagliatissima su wikipedia. (http://it.wikipedia.org/wiki/Fontane_di_Roma)

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In una città così affezionata all’acqua, la tentazione per il pigro fuorisede fuoriposto di non comprare l’acqua al supermercato – da portare a mano a casa – è fortissima. E infatti l’esemplare tipico di questa specie beve con disinvoltura l’acqua che sgorga sempre fresca dal rubinetto. Ciò non toglie che ciclicamente si diffondano allarmi su veleni e/o sostanze tossiche di vario tipo presenti nelle acqua capitoline. L’ultimo è l’allarme arsenico del gennaio scorso, tra l’altro ampiamente provato e documentato. http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/07/acqua-inquinata-in-lazio-nella-popolazione-concentrazione-di-arsenico-oltre-soglia/462443/

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Ma cotanta documentazione non impedisce alla variegata popolazione di fuorisede di dividersi in grandi blocchi d’opinione. Da una parte chi per un paio di settimane compra l’acqua in bottiglia, giusto il tempo che i media smettano di parlarne. Contestualmente, per non stare tutti i giorni a caricare casse d’acqua, questo gruppo umano è solito ridurre il consumo d’acqua  – il che credo faccia molto più male di qualsiasi veleno. Il fuorisede politically (in)correct ci mette pure una pindarica polemica contro la lottizzata Acea di Alemanno: “se compro quella in bottiglia faccio guadagnare meno la municipalizzata dei neofascisti”.

L’altra fazione è quella dei duri e puri: è tutto un complotto delle multinazionali   alimentari per colonizzare pure il mercato romano. Giusto un attimo e scatta il complottismo, la connivenza dei media e i discorsi su massimi sistemi e capitalismo. “Se ne inventano di ogni pur di farci comprare dell’inutile acqua in bottiglia”. Su questa adorabile retorica si innesta quella ambientalista: “la plastica delle bottiglie è tutta uno spreco”! Poco importa se l’Unione Europea da anni chiede al Lazio di classificare come “non potabile” l’acqua di alcune province, il fuorisede fuoriposto continua a credere di vivere in un candido paesucolo sugli Appennini in armonia con la natura. Heidi style.

si porta a roma… lo tsunami tour

Se da Napoli – capitale di un’irresistibile decadenza noir – ti trasferisci a Roma – la capitale vera, dove girano i soldi – credi di andare a vivere in una città ricca. E in parte è così. Poi però, insieme alla primavera, sulla città si abbatte uno tsunami arrabbiato, e allora inizi a capire che non esistono solo i marmi del tuo condominio di piazza Bologna.

No, non è lo tsunami di Grillo a piazza San Giovanni. Lo Tsunami tour di primavera è molto più concreto. Questo sì che è dal basso, dalla carne viva della città. Quella rimasta senza pelle, più sensibile, che dopo aver perso la pelle ha poco altro da perdere.

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Lo Tsunami di primavera ha poco a che fare con il mare, e tanto con la casa. Quella casa che i fuorisede strapagano. Ebbene, la settimana scorsa sono stati occupati decine di stabili disabitati, solo poche decine rispetto alle centinaia di migliaia di soluzioni abitative sfitte o abbandonate sparse per la città. Avrete letto e sentito già tutto sulla questione. Non sto qui a snocciolare dati.

Tra i tanti, lo stabile occupato più bello di tutti è il villino di via Antonio Musa. I ragazzi del progetto Degage hanno fatto proprio il palazzo della regione, pronto a essere venduto a un prezzo irrisorio, per renderlo il nuovo studentato autogestito. Ti hanno assegnato la residenza universitaria a ponte di Nona? Don’t worry, keep calm and occupy Rome.

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Nel pieno del pseudo chic di villa Torlonia, vicino al policlinico e al campus della Sapienza. Qui andrebbero costruite le residenze universitarie,  non fuori dal raccordo, nei nuovi quartieri di Caltagirone dove l’anomia regna sovrana. (a proposito, domani sera la Gabanelli a Report parla proprio dei palazzinari romani: don’t miss it!).

I prof a scuola ci invitavano sempre a fare le domande in classe, ricordate? Dicevano: fatele, perché per ognuno che osa e apre la bocca, ce ne sono altri dieci che sono timidi ma vorrebbero chiedere la stessa cosa. Ecco, funziona un po’ così: dieci stabili occupati non sono nulla a confronto di tutti gli studenti o disoccupati senza un tetto, ma per ogni studente che occupa ce ne sono altri cento che esprimono le stesse istanze.

si porta a roma… fare la spesa (ogni tanto…)

Credo sia ormai cosa nota: il fuorisede fuoriposto che si rispetti non c’ha na lira. E se ce l’ha, ha mille modi per spenderli che non siano la spesa al supermercato. Ciononostante è oggettiva la necessita di nutrirsi – anche se non universale, dato che ne conosco alcuni che saltano pasti con lodevole disinvoltura. Dopo l’ennesima cena a pizza/kebab/cinese a domicilio; dopo l’ennesima volta in mensa universitaria a pranzo e a cena… a un certo punto bisogna fare la spesa. Non si scappa.
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Spazzando il campo da ogni già remota possibilità di spostarsi più di 500 metri a piedi, la scelta della catena di supermercati da cui farsi adottare è quindi vincolata a fattori geoposizionali, ma non solo. Ruolo cruciale gioca la possibilità di avere un amico/coinquilino con auto annessa. In quel caso ipotetico si aprirebbero infinite possibilità come Coop e Auchan che qui non consideriamo.

Oggetto d’interesse sono invece quei supermercati piccoli che trovi sotto casa anche in centro. Carrefour, Conad e qualunque altra catena dove le nostre famiglie di provenienza abitualmente fanno la spesa, seppur effettivamente di qualità, vengono scomodati dal fuorisede fuoriposto solo per “la carne”: acquisto ponderato sempre con somma razionalità e sul quale il soggetto esercita tutto il proprio spirito critico. Ingurgiti qualunque cosa il maghrebino di turno ti ficchi nella piadina del kebab? Bene, sulle salsicce della Conad avrai da ridire qualunque cosa.supermercati4

Poi ci sono i mercati coperti, quelli permanenti, di cui il fuorisede ama parlare: va sbandierando in giro della verdura di stagione che trova lì sotto casa, di quanto si senta fiero del proprio massaia-mode in cui mette in pratica i consigli di mamma/nonne/zie. Diffidate di tutto ciò: il mercato l’ha visto solo da fuori, e con le serrande abbassate. Mai nella sua vita ha deciso di fare la spesa la mattina – strappandosi dalle braccia di Morfeo – e quindi quel mercato che apre solo una volta a settimana di pomeriggio non lo ha mai visto.
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Più congeniale ali orari così distanti da quelli del mondo reale, sono gli alimentari gestiti da cingalesi e cinesi che vendono un po’ di tutto. Cosa di preciso non ci è dato sapere, date le lingue strane in cui spesso sono le etichette. Ma va bene così: se sono le dieci di sera e hai il frigo vuoto vale tutto, si sa. C’è da dire che questi esercizi commerciali vincono sui superalcolici, ma anche in questo caso è difficile ipotizzare una vita a base di vodka.

Scartato l’ iN’s grazie a quel briciolo di amor proprio che ancora conserva, alla fine la spesa del fuorisede fuoriposto medio – per lo meno a Roma – si riduce al Tuodì, che almeno ha il nome simpatico. Decine ne hanno aperti in questi ultimi mesi, in ogni angolo della città. Un “discount di lusso”, per intenderci, che cerca di convincerci grazie a cartelloni dai faccioni sorridenti che non stiamo rinunciando alla qualità. I saggi – parola più che mai di moda – di marketing del Tuodì non sanno che il requisito essenziale per il fuorisede è la commestibilità. Ma che non vengano a sapere che il fuoriposto duro e puro va pazzo anche per il cartone delle loro cotolette impanate…